Utopia e azione. Per una storia dell’anarchismo in Italia è uno studio organico e di ampio respiro, che affronta la ricostruzione dell’anarchismo in Italia a partire da una prospettiva specifica, quella storica. La lente della storia permette all’autore di tracciare un profilo originale del movimento anarchico, ma soprattutto costituisce un angolo di visuale privilegiato per far emergere tratti e specificità del movimento altrimenti in ombra: ne esce un movimento composito al suo interno, ricco di diversità e costituito da profili esperienziali diversi tra loro; un movimento la cui continuità nel tempo, spesso messa in dubbio dai suoi detrattori, risulta essere carattere distintivo.
La prospettiva storica permette, in questo caso, di rendere giustizia alla storia di un movimento che è stato troppo spesso snobbato dalla storiografia ufficiale e dalle accademie perché scomodo, difficile da categorizzare, restìo a farsi incasellare all’interno di schemi e generi classici.
La ricostruzione operata da Senta fa luce sull’importanza di indagare e di approfondire i profili biografici dei singoli militanti e le specificità regionali e locali delle diverse sperimentazioni al suo interno, attraverso uno studio comparato di fonti e informazioni diverse; si delinea un movimento che si sviluppa attorno all’intreccio e all’equilibrio tra biografie individuali e dimensione collettiva. Dove l’aspetto etico delinea una tensione costante, esistenziale, diventa visione totalizzante e muove pensieri e azioni.
Quella ricostruita dall’autore è una delle possibili storie dell’anarchismo italiano, che risponde ad alcune domande, proiettate sia sull’ieri sia sull’oggi, e fornisce strumenti in più per leggere il passato e provare a tradurre il presente.
“Utopia e azione. Per una storia dell’anarchismo in Italia” si sviluppa all’interno di un tempo ben perimetrato: la narrazione inizia con il 1848 e si conclude nel 1984. Perché hai scelto queste due date?
L’inizio è un po’ inusuale, dal momento che la storia dell’anarchismo in Italia la si fa iniziare a partire dal 1872, la data di fondazione della Sezione Italiana dell’Internazionale che coincide con la Conferenza di Rimini.
Sulla scorta di studi precedenti non miei, ho voluto mettere in luce quelli che, a mio avviso, sono gli elementi libertari del Risorgimento; ritengo che l’anarchismo sia nato nel solco del Risorgimento e che, potremmo azzardare, senza di esso non sarebbe concepibile un anarchismo in Italia. Il 1848, in particolare, fu l’anno dell’entrata in massa dei popoli nella storia e segnò una fase di radicale sconvolgimento a livello europeo e internazionale.
Fu il momento in cui giunse e venne recepito in Italia il pensiero di molti intellettuali europei, in particolar modo francesi, come Louis Blanc, Francois-Marie-Charles Fourier, Pierre-Joseph Proudhon. Svariati intellettuali italiani, che avranno poi influenza sul movimento anarchico, subirono l’influenza del pensiero francese: ad esempio Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo, scrittori molto interessanti, diversi tra loro ma entrambi concordi nel dare una dimensione federalista al processo di unificazione nazionale.
Per quanto riguarda invece l’azione concreta, le due dinamiche furono strettamente legate: molti partecipanti alla Prima Internazionale in Italia erano ex camicie rosse che parteciparono alle avventure garibaldine e che maturarono, in seguito all’esperienza ed allo shock della Comune di Parigi, il passaggio da una lotta di tipo nazionale a una lotta sempre più sociale. Questa è la ragione della datazione iniziale: indagare il retroterra che portò alla fondazione dell’Internazionale in Italia.
L’anno di fine, che certo richiama Orwell, si riferisce ad un momento piuttosto centrale nel definire l’anarchismo da lì in poi e che identifica un termine di rottura rispetto ad una fase: il 1984 è stato l’anno dell’incontro internazionale anarchico che si tenne a Venezia e che contò la partecipazione di circa 3000 anarchici da ogni parte del mondo e che, io penso, possa essere considerato come la fine del 1968, inteso come la fine degli anni Settanta. Quell’occasione rappresentò uno dei momenti in cui una certa parte del movimento rese esplicito il fatto di non credere più ad una ipotesi di tipo insurrezionale di tipo classico, di massa. Fu considerato vitale, invece, dare fiato e gambe a tutte quelle pratiche, per quanto parziali e contingenti, di liberazione, di autogestione, di cooperazione antiautoritaria, quindi quei frammenti, quelle vene di anarchia, all’interno della società. Sicuramente in maniera non pacifica rispetto alla società presente, in un contesto di insopportabilità verso il giogo dello stato e del capitalismo e quindi sempre in frizione con esso. Il 1984 può essere considerato come uno dei punti di svolta rispetto al ciclo precedente e a quello che poi si aprirà.
Dal tuo libro emerge anche un altro legame dell’anarchismo italiano delle origini: quello con i repubblicani. Come si struttura questo rapporto?
Fu un rapporto stretto, che emerge se indaghiamo le biografie di alcuni dei personaggi principali dell’anarchismo italiano come Errico Malatesta e, successivamente, Luigi Galleani. Entrambi, come molti altri, ebbero un passato giovanile repubblicano, mazziniano. Buona parte degli anarchici mantennero nei confronti di Mazzini una sostanziale ammirazione per quella che veniva definita la fede, la fiducia in un ideale e la capacità di dedicare tutta la propria vita a ciò. Mazzini rimase, anche per gli anarchici, un esempio assoluto di abnegazione.
Nel corso della storia dell’anarchismo furono diversi i momenti di alleanza con i repubblicani; forse uno dei più celebri è rappresentato dalla settimana rossa: siamo nel giugno del 1914, davanti a quello che probabilmente fu l’ultimo tentativo insurrezionale di massa prima del cambiamento di fase rappresentato dalla Prima Guerra Mondiale. In quell’occasione agì di fatto un’alleanza alla base tra anarchici e repubblicani, in particolare in zone, quali la Romagna e le Marche, dove sia i repubblicani sia gli anarchici erano particolarmente forti e radicati.
Con i repubblicani gli anarchici condivisero sempre l’avversione alla monarchia che assunse forme diverse, dal tirannicidio (sto citando Gaetano Bresci nel 1900) al referendum sulla monarchia. Un’alleanza, quindi, che segnò sia situazioni di azioni dirette sia momenti di voto, di delega. Su questa avversione alla monarchia si strutturò un rapporto di alleanza pur rimanendo entrambi all’interno di due sfere differenti: da una parte i repubblicani e l’accettazione, la volontà di ottenere un governo repubblicano, dall’altra parte gli anarchici, la tensione verso un futuro senza nessun tipo di governo, senza il governare.
Nell’introduzione affermi che questo libro nasce dalla necessità di colmare un vuoto storiografico. Da che cosa è scatenato questo vuoto e in che rapporto si pone con le accademie e con la storiografia marxista?
Non è falsa modestia ma onestà. Questo vuole essere un contributo, uno studio per una storia dell’anarchismo italiano. Non è un libro onnicomprensivo perché fare la storia dell’anarchismo in Italia in 250 pagine vuol dire, necessariamente, tralasciare moltissimi episodi, fatti e interpretazioni e citarne invece altri, a mio avviso più significativi, originali e poco conosciuti, per aggiungere un tassello in più alla conoscenza. Ho inteso questo libro come un possibile duplice strumento: un testo divulgativo, utile a chi si interessa di storia contemporanea o di politica, ma che degli anarchici non ne sa granché; e, d’altra parte, uno strumento per chi è già interno e interessato alle vicende del movimento.
Mi pare che non ci siano, se si tralasciano alcuni tentativi non particolarmente felici, storie dell’anarchismo italiano nel suo complesso, in una prospettiva cronologicamente lunga. Certamente ci sono gli importantissimi libri di Pier Carlo Masini, che però si interrompono agli inizi del ‘900.
Credo che in generale la storiografia sull’anarchismo abbia pagato un debito nei confronti dell’egemonia marxista su questo tipo di studi e sulla storia del movimento operaio; credo, d’altra parte, che non ci sia da fare eccessivo vittimismo su questo. Nel passato ci sono state eccezioni virtuose (i libri già citati di Pier Carlo Masini, ma anche altri): pensiamo alla prima stagione della rivista Movimento Operaio; inoltre, a partire circa dagli anni 2000, si è aperta una nuova stagione della storiografia dell’anarchismo, una stagione che ha preso le mosse dall’edizione del Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani a cura della Biblioteca Franco Serantini, che poi ha di fatto dato il via a tutta una serie di altri studi a riguardo. Credo davvero ci sia stata una svolta anche grazie al contributo di diversi storici, tra cui anche alcuni giovani che, pur spesso in un contesto di precarietà, cercano di lavorare in maniera innovativa e scientifica su questo tema.
Perché, rispetto alla storia del movimento anarchico, è importante assumere una prospettiva di tipo storico e non solamente teorico? Che cosa ci permette di vedere questa prospettiva?
Quando mi guardo attorno io non so fare altro se non ricercare i perché relativi a quello che vedo e i perché io li ritrovo anche e soprattutto nella storia.
Nella mia formazione, anche pratica, lo studio della storia è andato di pari passo con quello dell’attualità politica e della filosofia. Rappresenta, quindi, uno degli strumenti che utilizzo per provare a interpretare la realtà. Lo studio della storia, da un mio punto di vista personalissimo, nasce dall’esigenza di indagare, di provare a comprendere e quindi di trasformare il presente.
D’altra parte io metto in guardia dall’individuare un rapporto diretto tra la storia e l’attualità: ho da sempre molti dubbi sul fatto che la storia possa essere magistra vitae. Di certo la storia ci fornisce degli strumenti di interpretazione delle condizioni ideali, sociali, materiali dell’epoca passata e ci può dare alcuni elementi per una lettura di lungo periodo. Bisogna stare molto attenti, però, ad applicare categorie e soluzioni del passato al panorama attuale perché il quadro è sicuramente più complesso.
Nella tua ricerca hai avuto delle difficoltà di tipo metodologico? Considerata l’estrema multiformità del movimento anarchico, ritieni sia necessario un approccio diverso rispetto a quello utilizzato per lo studio di altri movimenti politici?
Hai detto bene, multiformità! Anzitutto questo lavoro non sarebbe stato possibile senza uno studio decennale di questi argomenti. Il momento della scrittura mi ha preso circa due anni, ma gli anni precedenti li ho passati a studiare e, molti di questi, a lavorare in archivio. Importante è stato il lavoro come archivista – con un infimo salario – presso l’Istituto di storia sociale di Amsterdam, dove ho potuto mettere a posto tra i 20 e i 25 metri lineari di documentazione sul movimento anarchico internazionale novecentesco raccolta nel Fondo Ugo Fedeli. Anche gli studi universitari sono stati importanti, all’epoca facevo il dottorato all’Orientale di Napoli, però qualcosa di non comparabile con l’entrare fisicamente in un archivio. Molteplicità: fare la storia del movimento anarchico è difficile, io credo si debbano affiancare molti tipi e tipologie e letture della storia. È necessario sovrapporre letture biografiche a letture di storia sociale, a letture di storia economica, di antropologia… probabilmente non saprei nemmeno elencarle tutte. Bisogna ricercare un metodo che si faccia forza di diverse abilità.
In particolare per questo lavoro cosa ho dovuto fare? Ho dovuto avere conoscenza di gran parte della letteratura secondaria e quindi delle storie locali: le storie regionali e le storie sociali particolari da cui sono emersi gli anarchici e il ruolo del movimento anarchico; a queste ho dovuto “sommare” le fonti d’archivio, ovvero gli archivi dei singoli militanti; ancora i giornali, le fonti periodiche, la stampa e i documenti di polizia. A queste ho unito alcune fonti orali e probabilmente non ho ancora terminato di elencare tutte le fonti che ho utilizzato.
È stato necessario considerare tutte queste tipologie di fonti e utilizzarle in maniera comparata, mettendole a confronto per poi indagare intrecci e riscontri. Certo, fare la storia del movimento anarchico è tutt’altro che fare la storia di un partito.
Per ricostruire la storia dell’anarchismo è necessario fare riferimento alle singole biografie dei militanti. Che cosa ci suggerisce questo dettaglio del movimento anarchico rispetto ad altri movimenti, dove questa dimensione individuale viene meno?
Ci dice, ad esempio, che gli studi sull’anarchismo si sono trovati più preparati di altri davanti a una svolta, compiutasi all’interno della storiografia degli ultimi decenni, che ha segnato l’emergere, nuovo rispetto al passato, delle storie individuali, di gruppi, di collettivi e di famiglie. Storie singole in questo senso.
Uno dei miei precedenti lavori è stata la ricostruzione della biografia di Ugo Fedeli, un importante militante. In quel caso ho capito come le biografie dei singoli militanti non fossero fini a sé stesse, per quanto estremamente interessanti, ma rappresentassero una lente attraverso cui cercare di delineare le caratteristiche di un movimento collettivo. Le singole biografie permettono di intravvedere la dimensione sociale di un movimento collettivo e anche di quello che ci sta attorno. Attraverso le carte dei singoli militanti abbiamo riscontro della loro personale visione, ma anche della visione del momento rispetto a quell’avvenimento politico o a quella fase sociale. In questo senso non penso sia possibile fare la storia dell’anarchismo senza avere presente le molte storie di vita dei singoli militanti, perché costituiscono un angolo di visuale, una chiave interpretativa fondamentale e ricchissima perché in grado di aprire infiniti rapporti. Pensiamo, ad esempio, ai rapporti tra singoli militanti non solo all’interno dello stesso movimento, ma anche tra militanti di aree diverse; questa considerazione apre una serie di riflessioni sulle relazioni tra i militanti di base in generale. Sarebbe interessante poter ricostruire l’intero ambiente sovversivo, fatto di materialità, di luoghi, di persone e di idee di fondo che militanti di diverse aree politiche condivisero. Questo rapporto fu evidente in particolare nell’Ottocento, ma ancora e soprattutto nei primi decenni del Novecento.
Rispetto alla pratica del movimento, come è stato possibile reggere un equilibrio fra la tensione individuale e la dimensione collettiva?
È difficile rispondere. Da una parte si potrebbe dire che l’anarchismo non ha mai cessato di riflettere sul rapporto tra individuo e collettivo, cioè tra individualismo da una parte e organizzazione dall’altra. Credo, però, che la ricchezza dell’anarchismo risieda soprattutto nell’essere un movimento di individui; ciò significa che la dimensione etica, al suo interno, diventa irriducibile. Per raggiungere i nostri obiettivi non possiamo scavalcare la dimensione individuale, perché questa, nella valorizzazione della libertà di ognuno, diventa un mattone nella lunga e difficile strada per costruire qualcosa d’altro.
Potrebbe esserci, inoltre, una doppia risposta alla tua domanda: una risposta critica nei confronti dell’anarchismo direbbe che esso non ha mai risolto la contraddizione tra individuo e organizzazione; una risposta più interessante, di altro segno, potrebbe essere che la cifra caratteristica dell’anarchismo è quella di costruirsi come movimento sociale sulla base sull’assunto innegabile della valorizzazione della libertà dell’individuo, che è un assunto innanzitutto etico.
Se volessimo tracciare un bilancio generale, qual è il contributo che il movimento anarchico italiano ha dato al paese, in termini politici e sociali, e nella costruzione di un immaginario altro?
In altri tempi questo immaginario era molto più forte e più presente negli strati popolari, un immaginario sovversivo se non propriamente anarchico.
Questo immaginario è stato piallato prima dal fascismo e poi, nel secondo dopoguerra, dalla gerarchia di partito. Credo però che in maniera carsica esso sia rimasto e l’anarchismo e l’anarchico si siano mantenuti quali simboli della rivolta possibile. Non ho mai considerato in maniera troppo negativa quando media e opinione pubblica associano la parola anarchico al rivoltoso, al ribelle. Credo che la ribellione sia una dimensione fondamentale nella costruzione di un altro immaginario e che il contributo dell’anarchismo sia stato quello di provare a mantenere vivo questo immaginario e di cercare di metterlo in pratica il più possibile, anche attraverso sperimentazioni parziali. Questo immaginario altro corrisponde a un vivere altro, un vivere in maniera emancipata senza sfruttamento e senza imposizioni autoritarie, statuali o meno.
Cito dal tuo libro: “Rimane la questione centrale della politica: l’anarchismo è il movimento che più ha provato ad assumere la politica in chiave etica”. Che cosa vuol dire?
Vuol dire questo: se risaliamo alla nascita dell’anarchismo, in particolare alla fondazione della cosiddetta internazionale antiautoritaria dopo la scissione con l’internazionale marxista, vediamo che un assunto centrale per l’anarchismo è la negazione della politica. Questa definizione può essere intesa in varie maniere e forse per questo rimane ambigua; è chiaro che la politica implica una dimensione di decisione quindi una necessaria imposizione della decisione su qualcuno, su un corpo sociale che non può decidere. Implica decisione da una parte ed obbedienza dall’altra (o punizione in caso di mancata obbedienza). Ricordo un manifesto recente di alcuni compagni che diceva: “L’anarchismo: tutto un altro modo di fare politica”. Anche questa definizione è un po’ delicata, ma di certo sarebbe altrettanto problematico un manifesto che si rifacesse all’anarchismo come antipolitica. Io credo che potremmo utilizzare il termine a-politico in riferimento al movimento anarchico, intendendo che la sfera decisionale non debba essere impositiva. Questo fa riferimento ad una tensione utopica poiché implica che la preponderanza venga data al momento sociale, in cui la società o parti di essa decidano di per sé, senza delegare ad un organo esterno (quale ad esempio è sempre stato il governo). Questo è senza dubbio un tema da sviscerare.
Credo che il movimento anarchico, quale movimento politico se vogliamo, sia quello che maggiormente ha negato questo carattere della politica, in nome di una dimensione sociale ed etica, quindi di una dimensione di emancipazione sociale e collettiva in cui è fondamentale l’irriducibilità dell’autonomia, dell’indipendenza dell’individuo.
Credo che questo sia un punto centrale ma obiettivamente di difficile spiegazione: ci sono molti compagni teorici che riflettono sull’assenza di scienza politica nell’anarchismo. Ritengo che questa assenza implichi una ricchezza, sia ciò che permette all’anarchismo contemporaneo, e che ha permesso a quello storico, di ridefinirsi e di provare a mutare pelle continuamente stante alcuni principi di base.
Il sottotitolo del tuo libro recita: “Per una storia dell’anarchismo italiano”. Quali sono le altre possibili narrazioni di questa storia?
Sono molte. La prima che mi viene in mente e la più importante è quella di una storia dell’anarchismo non in Italia ma italiano, di lingua italiana e quindi presente anche al di fuori del paese.
Inoltre, per realizzare un libro ancora più completo, bisognerebbe essere in grado di considerare tutta la dimensione dell’esilio e dell’insediamento altrove. Moltissimi sono gli insediamenti anarchici in Sud America, in Nord America, in Australia, in Nord Africa, in Europa. Questa sarebbe ancora un’altra storia, una storia dell’anarchismo italiano da intendersi di lingua italiana. Se vediamo i periodici, che rappresentano uno strumento fondamentale per indagare questo tipo di storia, e consideriamo i giornali editi in Italia, ci rendiamo conto che ce ne sono quasi altrettanti editi fuori d’Italia in lingua italiana.
Altre ancora sarebbero le storie possibili; quella che ho raccontato io è la storia dal mio punto di vista, che ritengo personale e non certamente esaustiva.
Gli anarchici sono stati spesso accusati di essere al di fuori della società e quindi in qualche modo in ritardo rispetto ad essa. Mi sembra invece che, molto spesso, essi siano stati in anticipo sui tempi.
Questa impressione l’ho avuta nei primi anni della mia militanza. Avevo la sensazione netta di essere fuori dal dibattito politico (si era nella fase di Genova 2001), poiché l’opinione pubblica continuava ad occuparsi di altri soggetti politici e sociali. Questo dava a me, molto giovane, una certa frustrazione, e mi faceva dire: “Sì, siamo in ritardo”. Oggi non credo sia così: in ritardo a volte, su alcune cose, in anticipo su molte altre.
È difficile esserlo per gli anarchici, proprio per la loro refrattarietà rispetto all’ordine costituito; non siamo mai in sintonia rispetto all’ordine in cui siamo costretti a provare a vivere perché, certamente, non siamo obbedienti. Questa è una considerazione più da militante, che da storico, ma credo che sia sensato ribaltare quest’accusa mossa spesso contro anarchici, dicendo che se andiamo a vedere molte questioni, ad esempio al metodo autogestionario, al metodo orizzontale e assembleare, a tutti i vari caratteri del metodo anarchico, probabilmente siamo stati in anticipo rispetto ad alcune tendenze più larghe.
a cura di Silvia Antonelli